MARCO BELLOCCHIO
Turbatore di coscienze
Quando nel 1965 uscì lo “scandaloso” I pugni in tasca, primo lungometraggio dell’allora venticiquenne Bellocchio (rifiutato dalla Mostra di Venezia, ma premiato a Locarno), il cinema italiano ebbe uno scossone forse paragonabile solo a quello che gli era stato inferto nel 1943 da Luchino Visconti con Ossessione, film che segnò la nascita del Neorealismo.
Pier Paolo Pasolini, approdato alla regia qualche anno prima, scrisse allora a Bellocchio definendo il suo film come non appartenente alla categoria del “cinema di poesia” da lui difesa, un cinema cioè in cui lo stile deve avere un valore primario, che sovrasti il contenuto, ma a quella del “cinema di prosa”, dove prevale il racconto, il personaggio, la psicologia; anche se riconosceva che si trattasse di una prosa “che spesse volte sbava e sfuma nella poesia”. Il carteggio tra i due rivela senz’altro delle cortesi divergenze d’opinione, ma Pasolini concludeva quello che chiamava un “dialogo di isolati” con l’augurio a Bellocchio di continuare a “turbare sempre più le coscienze dell’Esercito, della Magistratura, del Clero reazionario, e insomma della Piccola Borghesia italiana, a cui abbiamo il disonore di appartenere”.
Crediamo che Bellocchio, nella trentina di film realizzati dopo I pugni in tasca (l’ultimo, Rapito, è uscito nelle nostre sale alla fine del 2023, e quindi non è incluso nella nostra rassegna) si sia sempre attenuto a questa dimensione fondamentale del suo cinema, rimanendo, pur con una continua ricerca di forme espressive diverse, un vero turbatore di coscienze. Nel mirino dei suoi film c’è innanzi tutto la famiglia borghese, ma non sono risparmiati lo Stato, la Chiesa cattolica, le istituzioni in genere (e quelle “totali” in particolare: il collegio, l’esercito, il carcere, il manicomio). E poi c’è sempre di mezzo l’inconscio, e non solo nel periodo in cui viene infatuato (molti dicono addirittura plagiato) dallo psicoanalista Massimo Fagioli, che collabora con lui alla sceneggiatura per La condanna (1991) e Il sogno della farfalla (1994), ma che è l’ispiratore anche di altri film di quel periodo. Nei suoi film, gli attacchi alle istituzioni sono però spesso affrontati a partire da esperienze vissute in prima persona o assorbite nell’ambito familiare. Come ha ben notato Goffredo Fofi, Bellocchio si è mosso “sempre attorno al proprio io, al proprio nucleo intimo e privato di interessi”: sono sì frequenti i confronti con la realtà esterna, “anche seri e serissimi, ma solo in quanto utili al perseguimento di uno scavo, di una ricerca e definizione di sé”. Tutto questo è già evidente ne I pugni in tasca (non a caso girato nelle case di famiglia del Piacentino), ma lo si può vedere in sottofondo in quasi tutti i suoi film e sarà esplicitato con chiarezza in quello splendido documentario familiare che è Marx può aspettare (2021).
Nella sua lunga carriera Bellocchio ha realizzato film di altissimo valore e altri meno memorabili: ognuno è libero di scegliere i suoi preferiti, ma tutti sono il frutto di una assidua ricerca (tematica e stilistica) su se stesso in relazione con la realtà e obbligano lo spettatore a intraprendere lo stesso cammino e a porsi dubbi e domande sul proprio essere nel mondo. Questa rassegna dei cineclub ha potuto per forza di cose (numero di date disponibili, grosse difficoltà a reperire gli aventi diritto) presentarne solo una parte, tuttavia sufficiente, crediamo, per testimoniare la coerenza del suo percorso artistico.
Michele Dell’Ambrogio, Circolo del cinema Bellinzona
Nota: Le citazioni da Pasolini e da Goffredo Fofi sono tratte dal bel volume che ha accompagnato la Retrospettiva dedicata a Bellocchio dal 51° Festival del film di Locarno: Marco Bellocchio – Catalogo ragionato, a cura di Paola Malanga, Milano, Edizioni Olivares, 1998.
con Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masé, Liliana Gerace, Pierluigi Troglio, Jeannie McNeil, Celestina Bellocchio…
v.o. italiano; st. francese, tedesco; bianco e nero; 105’ – Italia 1965
In una grande villa nella campagna piacentina, una madre cieca vive con i suoi quattro figli: il maggiore, l’avvocato Augusto, è l’unico a tenere in conto l’integrazione sociale e il benessere economico; il minore, Leone, è affetto da un ritardo mentale; Giulia, psicologicamente instabile, è invece morbosamente legata all’altro fratello, Alessandro, paranoico ed epilettico. Proprio lui medita una strage…
Opera prima dissacrante ed estrema, che impose il venticinquenne Bellocchio all’attenzione internazionale, punto di rottura dal cinema d’autore in voga all’epoca (…). Evidente l’attacco feroce alla classe borghese, la violenza con cui regola i conti con i padri e la rabbia con cui dà sfogo all’istinto di ribellione, anche se è difficile leggerlo come un film propriamente politico (…). Al centro, con parziale riferimento autobiografico (il film fu girato nelle due case di famiglia a Bobbio), c’è una visione patologica dell’istituzione familiare, la cui dissoluzione è vista come un atto di purificazione dal protagonista, interpretato magistralmente da Lou Castel (…). Scartato dal Festival di Venezia diretto da Luigi Chiarini, vinse a Locarno il premio per la miglior regia.
con Yves Beneyton, Renato Scarpa, Lou Castel, Piero Vida, Edoardo Torricella, Aldo Sassi, Marco Romizi, Laura Betti, Tino Mastroni, Gisella Burinato, Gianni Schicchi…
v.o. italiano; colore; 90’ – Italia 1972
Roma, 1958. Il giovane Angelo Transeunti entra nel collegio del Santissimo Nome di Gesù e sconvolge l’ordine imposto da padre Corazza. Ma i suoi comportamenti blasfemi e antiautoritari non hanno motivazioni anticlericali e libertarie: sono ispirati da un’ideologia vetero-mistica e per dimostrare che la religione è una favola per spaventare i poveri di spirito, mette in scena un Faust splatter. Sarà l’inizio della fine…
Uno dei film di Bellocchio più complessi: una parabola ambigua, sulfurea, disturbante e spesso molto divertente. Il senso ultimo è l’impossibilità della rivoluzione: e rischia di passare inosservato dietro la rappresentazione satirica e feroce di un cattolicesimo preconciliare (il 1958 è l’anno in cui muore Pio XII), con tutte le sue distorsioni e perversioni anche sessuali. Transeunti, infatti, non è l’eroe di una rivolta, ma il volto nuovo di un potere tecnocratico che succede a quello della Chiesa: “Tutto ciò che è antiscientifico va eliminato, ora sei libera, va’ in fabbrica”, dice alla giovane contadina che vedeva la Madonna. E non riesce e non vuole unire il proprio progetto alle istanze rivoluzionarie incarnate dai servi, preferendo alla fine il matto Tino al servo Salvatore, l’unico che ha una certa coscienza di classe.
con Vittorio Mezzogiorno, Claire Nebout, Andrzej Sewerin, Grazyna Szapolowska…
v.o. italiano; st. francese; colore; 90’ – Italia 1991
Chiusa nottetempo per errore in un museo, una donna fa l’amore con un architetto; poi, sentendosi ingannata, lo denuncia per violenza carnale.
Vittima di un malinteso e di un giudizio frettoloso (anche per le forzature tipiche della stampa quotidianista, “d’attualità”, che ha cercato il titolo a effetto sullo “stupro”), La condanna non vuole essere un film a tema sulla violenza sessuale. Per quanto ambientato per buona parte in un tribunale, non è nemmeno “solo” un film pamphlet (come sostiene Sandro Bernardi nella sua monografia su Bellocchio). Se mai, è faticoso e denso come può esserlo la lettura di un arduo saggio critico, o una seduta d’analisi: stimola dei dubbi, illumina delle contraddizioni, provoca ed esercita lo spirito critico, rimescola l’immaginario, risveglia l’inconscio e lo fa reagire chimicamente con il conscio (…). Certo, il film è verboso, concettoso, difficile, per il frequente scollamento tra dialogo e immagine: ma soprattutto perché si propone l’ambizioso obiettivo di fondere realtà razionale e onirica, il linguaggio della legge e quello della psicoanalisi, puntellando inoltre il discorso di riferimenti artistici alti e immagini significative.
(Raffaella Giancristofaro, in Le forme della ribellione. Il cinema di Marco Bellocchio, a cura di Luisa Ceretto e Giancarlo Zappoli, Torino, Lindau, 2004)
con Andrea Di Stefano, Barbora Bobulova, Toni Bertorelli, Anita Laurenzi, Fabio Camilli, Gianluigi Fogacci…
v.o. italiano; st. francese; colore; 85’ – Italia 1997
Per aver lanciato la sua cavalleria all’attacco senza attendere l’ordine dell’Elettore, il principe di Homburg viene condannato a morte: in sua difesa interviene l’amata Natalia, ma quando l’Elettore gli offre una grazia disonorevole, decide di affrontare la sua sorte.
L’omonimo dramma di Heinrich von Kleist (scorciato e modificato nel finale) diventa il luogo dello scontro tra razionalità e inconscio: il “figlio” Homburg incarna le ragioni dell’autonomia di giudizio e di sentimento, mentre il “padre” Elettore è il depositario delle necessità della Legge e dell’Ordine. E la regia, essenziale e rigorosa (“langhiana” è stato giustamente detto), allarga lo spettro dell’interpretazione, innestando nel romanticismo di Kleist le intuizioni della psicoanalisi (ma senza le fastidiose sottolineature degli ultimi film, dovute alla presenza di Massimo Fagioli): così il sapiente uso del “fuori fuoco” carica di valori metaforici le immagini (…) senza mai arrivare a risolvere il conflitto dalla parte dell’individuo che sogna o da quella del governante che deve rispettare la legge. In questo senso si capisce la recitazione “stranita più che straniata” dei due giovani protagonisti.
con Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Maya Sansa, Piergiorgio Bellocchio, Jacqueline Lustig, Michele Placido…
v.o. italiano; colore; 105’ – Italia 1999
Roma, inizio secolo: poiché Vittoria è una puerpera senza latte, il marito psichiatra Ennio Mori assume una giovane balia analfabeta; e mentre i moti socialisti turbano la città, la presenza della ragazza modifica l’equilibrio di casa.
Ispirandosi all’omonima novella di Pirandello, abbondantemente “tradita” nella sceneggiatura, Bellocchio si interroga sulle gabbie che l’appartenenza di classe impone alle persone. Affidando al fratello Piergiorgio il ruolo del medico che abbandona l’istituzione per seguire una pasionaria, il film rimanda indirettamente all’autobiografia cinematografica del regista (l’ospedale psichiatrico di Matti da slegare, la militanza rivoluzionaria post ‘68); ma il finale solo parzialmente positivo – sia la balia sia Mori hanno imparato qualcosa l’uno dall’altro, ma la differenza di classe resta invalicabile – conferma un pessimismo esistenziale che non sembra avere vie d’uscita. Egregia la prova complessiva degli attori, con una menzione particolare per l’esordiente Sansa.
con Sergio Castellitto, Jacqueline Lustig, Chiara Conti, Alberto Mondini, Gianni Schicchi, Maurizio Donadoni, Gigio Alberti, Piera Degli Esposti…
v.o. italiano; st. francese; colore; 105’ – Italia 2002
Mentre scopre che la famiglia sta operando perché si acceleri il processo di beatificazione della madre, il pittore Ernesto Picciafuoco si accorge che l’insegnamento della religione a scuola sta ossessionando il figlio Leonardo: da una parte dovrà cercare di resistere al tentativo dei parenti che cercano di coinvolgerlo nella santificazione della genitrice; dall’altro resta affascinato dalla maestra di religione di Leonardo. Ma forse c’è qualcosa che lega anche queste due situazioni…
Quasi riprendendo idealmente i temi del suo primo film, Bellocchio si interroga sul senso e sulla forza di scelte che si danno per scontate e che invece devono essere quotidianamente – e dolorosamente – ribadite: proprio come è costretto a fare Picciafuoco, che vede riemergere un passato che credeva superato e che invece tutti sembrano disposti a tradire. La chiave scelta è quella del grottesco, che aggira i limiti del racconto realistico (…) e permette di affrontare tutti i temi sul tavolo – le azioni dettate dal tornaconto, l’arroganza delle istituzioni, le ambiguità della Chiesa – senza cadere nel cinismo o nell’autoconsolazione.
con Giovanna Mezzogiorno, Filippo Timi, Fausto Russo Alesi, Michela Cescon, Piergiorgio Bellocchio, Corrado Invernizzi, Paolo Pierobon, Bruno Cariello, Simona Nobili…
v.o. italiano; st. inglese; bianco e nero e colore; 128’ – Italia, Francia 2009
Innamoratasi di Benito Mussolini quando era socialista e direttore dell’Avanti!, la modista Ida Dalser gli offre i propri averi per fondare l’interventista Il popolo d’Italia e inizia una relazione che porterà nel 1915 alla nascita di Benito Albino. Lui riconosce il figlio ma sposa Rachele Guidi e cerca di allontanare la Dalser, diventata sempre più ingombrante, ma determinata a veder riconosciuto il suo ruolo di “madre del figlio del Duce”…
Bellocchio rispolvera una parte rimossa della vita del Duce e affronta (come spesso nei suoi film) il peso della figura paterna sotto una doppia luce: da una parte come “assenza affettiva” che allontana da sé la donna che rivendica il suo ruolo e il figlio che forse cerca solo un modello con cui identificarsi; dall’altra come “potere maschile” che cerca di dominare la Storia (arrivando a sfidare Dio nelle primissime scene) e finisce per farsi stritolare (l’immagine finale del busto schiacciato dalla morsa) (…). Bella fotografia molto contrastata di Daniele Ciprì. Sette David tra cui miglior regista, fotografia e montaggio.
con Pierfrancesco Favino, Luigi Lo Cascio, Fausto Rosso Alesi, Maria Fernanda Cândido, Bruno Cariello, Bebo Storti, Piergiorgio Bellocchio…
v.o. italiano; st. francese, tedesco; colore; 153’ – Italia, Francia, Germania, Brasile 2019
Inizio anni Ottanta. Trasferitosi in Brasile per occuparsi degli interessi di Cosa Nostra nel traffico di droga, Tommaso Buscetta si ritrova momentaneamente al riparo dalla faida scatenata dal corleonese Totò Riina contro il palermitano Stefano Bontate, che vede tra le vittime mietute anche due figli di Buscetta (…). La situazione fa perdere importanti protezioni a Buscetta, che viene arrestato dalla polizia e rimpatriato in Italia nel 1984 dopo un fallito tentativo di suicidio. L’incontro con il giudice Falcone lo spinge a collaborare con la giustizia…
Marco Bellocchio torna a confrontarsi con la recente storia d’Italia: dopo l’Aldo Moro di Buongiorno, notte (2003), è la volta di Tommaso Buscetta e dei grandi processi di mafia. Il titolo spiega molto, ma non tutto; perché del percorso che portò il “boss dei due mondi” ad aprirsi con Giovanni Falcone svelando i segreti di Cosa Nostra (e facendo arrestare 366 persone) sono raccontati solo i fatti pubblici, a cominciare dai colloqui con il giudice siciliano per proseguire con le sedute del maxiprocesso e i confronti con gli accusati, lasciando nell’ombra i possibili tormenti psicologici (…). Le vere intenzioni del film sono quelle di raccontare gli incontri con Falcone e le sedute del maxiprocesso come una vera e propria messa in scena dove ognuno indossa la sua maschera (…). Ottimo successo di pubblico e sei David di Donatello.