PABLO LARRAÍN
La Storia come prologo del presente
Uno dei tanti compiti dei cineclub è dare conto delle emergenze. Quelle dell’attualità contemporanea, certo, come spesso facciamo nelle rassegne tematiche. Ma in senso più etimologico anche quelle che riguardano il sorgere e l’affermarsi di nuove figure di riferimento, in particolare di registi in grado di tracciare un solco preciso con la loro opera, magari già dopo pochi film.
È sicuramente il caso di Pablo Larraín, che in pochi anni di carriera e sette titoli (tutti proposti in questa retrospettiva) ha saputo conquistare i favori dei grandi festival e della critica. In casi del genere è bene cogliere la palla al balzo e non esitare nel sottoporre un autore di tale portata al giudizio di un pubblico cinefilo e appassionato, anche perché – nonostante la loro indubbia qualità – alcuni dei film più osannati di Larraín nelle sale svizzere non ci sono mai arrivati. È il caso non solo dell’esordio Fuga, ma anche di Tony Manero, Post Mortem e El Club. Per un’introduzione ci affidiamo a uno stralcio dell’articolo-intervista apparso sulla rivista Cult della RSI.
Goffredo Fofi su Internazionale lo definisce “regista non simpatico e forse neanche uomo simpatico” ma pure “autore spregiudicato, intellettuale abile (…) che attua provocazioni molto astute, cioè intelligenti”. Incontrandolo di persona si ha piuttosto l’impressione di uno dallo sguardo dritto, certo, ma anche molto pacato e concentrato su ciò che fa. Il cileno Pablo Larraín è entrato da qualche anno nel panorama internazionale del cinema d’autore come un piccolo tornado. Accanito cultore di immagini lo-fi, che rievocano formalmente (a colpi di 4:3, di invecchiamenti fittizi della grana e dell’impasto cromatico) quel passato che spesso compone la materia dei suoi film. Appena quarantenne, figlio di due politici di destra (“una famiglia coinvolta nel potere fino al collo, anche con Pinochet”: sempre Fofi), ha tracciato per sé un tragitto artistico niente affatto scontato, ricco di inquietudini e di spigolosità narrative. Dall’alienazione criminale di Raúl, epigono di John Travolta in Tony Manero (2008); all’affresco agghiacciante della dittatura Post Mortem, dove si inscena l’autopsia di Allende (2010); alla brillantissima e multicolore ricostruzione dell’avvento democratico No – I giorni dell’arcobaleno (2012); al socio-psichiatrico-intimistico percorso di espiazione El Club (2015) in cui alla berlina dell’esilio sono posti alcuni preti pedofili (il film ha avuto la costola teatrale “Acceso”, passata anche al LAC di Lugano). Le presenze ai festival e i riconoscimenti critici sono giunti come se piovesse, con in aggiunta un percorso da produttore di film altrui che, insieme al fratello, pone Larraín al centro di una stagione ispiratissima del cinema del suo paese.
Il 2016 è stato un anno particolarmente fertile, con un film presentato a Cannes e un altro passato a Venezia. Se Jackie, sull’elaborazione del lutto da parte di Jacqueline Kennedy (Natalie Portman), è qualcosa di complesso e apparentemente lontano dai suoi tracciati (è il primo film produttivamente statunitense, ma ad un esame approfondito contiene tantissimi larrainismi), il potente e un po’ sfuggente Neruda va invece a braccetto fin da subito con le opere precedenti.
Neruda sembra proseguire un percorso, all’interno della sua filmografia, legato alla storia del Cile. Dalla fine degli anni ’80 di No al periodo della dittatura di Post Mortem a quello ancora più indietro nel tempo che si vede qui, dove per un attimo compare anche un giovanissimo Pinochet.
Che tipo di relazione con gli altri suoi film intesse quest’ultimo?
Per me non è facile pensare ai miei film in questo modo. Mi sembra che la storia funzioni sempre come un prologo del presente. Credo che la cosa interessante sia che il cinema offre una memoria complessa e fantastica, tale da permettere di articolare l’idea del passato in relazione all’oggi. Neruda è un film che ci riporta al Cile degli anni dal 1947 al ’49. Si tratta di un periodo molto affascinante, anni dove accaddero molte cose. Ad un certo punto Neruda scappò inseguito dalla giustizia. Mi pareva che ci fosse una particolare fascinazione in lui e nella sua figura, perché Neruda in quella fase cambiò molto. Quindi abbiamo pensato che quello fosse il momento interessante da trattare in un film su di lui.
Lei ha detto che si tratta di un biopic-non biopic. Forse possiamo dire lo stesso anche di Jackie. Si tende ad allontanarsi da quell’appiattimento sul realismo che è tipico delle biografie.
Sì, personalmente non mi piace molto realizzare film realistici. Mi piace molto guardarli, quando sono ben fatti. Però io non desidero essere un cineasta che fa del realismo. Mi interessa di più sondare i territori della finzione. In questo senso definirei Neruda un anti-biopic, mi piace chiamarlo così. È un film che cerca di non essere un ritratto di qualcuno, ma che prova a prendere la sua cifra, a assorbire la sua sensibilità, per lavorare con questi elementi.
Insieme a suo fratello lavora molto anche come produttore di film altrui. Possiamo dire che sta nascendo o è nato un percorso nel cinema cileno e latinoamericano contemporaneo che sta trovando una sua forte identità?
È possibile. Anche se mi è difficile esprimermi perché mi pare un quadro un po’ ambizioso. Di sicuro desideriamo produrre film con registi che troviamo interessanti. Mio fratello si occupa di questi aspetti più di me, ma certamente ci preme poter sostenere e aiutare registi che posseggano una voce originale. Ci preme che possano sviluppare il loro pensiero e arrivare a realizzare i film che hanno in testa. Come avviene con Sebastian Sepulveda o Marialy Rivas o Sebastian Lelio, per esempio. Artisti meravigliosi con cui è un piacere lavorare.
Che tipo di compromessi deve fare chi fa cinema? È un’arte collettiva e quindi rende necessario andare d’accordo con altri. Nel suo cinema di compromessi abbiamo l’impressione di vederne pochi. Ora che in un film come Jackie ha lavorato con il sistema produttivo statunitense, c’è stato qualcosa di diverso?
Per conto mio il problema del cinema è sempre lo stesso. Alla fine, che sia una produzione piccola, media o enorme, tutto si risolve nel fatto che c’è un attore davanti a una macchina da presa con una luce e un problema. Quello che io tento di fare è cogliere il personaggio attraverso il pericolo. Io credo nei personaggi che hanno uno sgomento e “sorgono”, con qualcosa di inatteso. Nel caso di Jackie l’esperienza è stata molto positiva e ha posto le stesse difficoltà che pone sempre il fare un film: capire come esporre la materia. Tentiamo di farlo al meglio in Neruda e lo abbiamo fatto in Jackie”.
(Articolo-intervista a cura di Marco Zucchi, apparso sulla rivista Cult RSI n. 10, dicembre 2016-gennaio 2017)
sceneggiatura: Pedro Peirano, dalla pièce di Antonio Skármeta “El plebiscito”; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Andrea Chignoli; musica: Carlos Cabezas; interpreti: Gael García-Bernal, Alfredo Castro, Luis Gnecco, Antónia Zegers, Marcial Tagle, Néstor Cantillana, Jaime Vadell, Pascal Montero, Elsa Poblete, Diego Muñoz, Roberto Farías, Patricio Aylwin…; produzione: Juan de Dios Larraín, Pablo Larraín, Daniel Marc Dreifuss per Fabula/Consejo Nacional de la Cultura y las Artes/Corfo (Cile) / Participant Media (Usa) / Canana Films (Messico) / Funny Balloons (Francia) / Programa Ibermedia (Spagna).
v.o. spagnolo, st. francese, 118’ – Cile/Usa/Francia/Messico/Spagna 2012
Cile, 1988. Dopo quindici anni di dittatura, Pinochet cede alle pressioni internazionali e indice un referendum per governare altri otto anni, concedendo all’opposizione quindici minuti per far conoscere in televisione, dopo le 23, le ragioni di un voto contrario. Il cartello delle opposizioni chiede aiuto al giovane pubblicitario René Saavedra che li convince a dimenticare le recriminazioni sul passato per lanciare un messaggio emotivamente coinvolgente, un “No” a Pinochet che regali il sogno di un futuro di allegria e felicità, come il simbolo dell’arcobaleno che hanno scelto (…) Il 5 ottobre il “No” un po’ a sorpresa vincerà.
Larraín chiude la sua ideale trilogia sul Cile di Pinochet, dopo Tony Manero e Post Mortem. Filmato con una vecchia U-Matic in formato per recuperare la grana e le imperfezioni delle immagini di allora (…), il film riporta lo spettatore all’interno del dibattito politico di allora ricostruendo il clima di violenza e di repressione che la dittatura metteva in atto. Ma soprattutto mette in evidenza le contraddizioni alla base della vittoria. Il mito del neoliberismo economico (…) diventa la pietra di volta su cui René costruisce la sua “campagna” (…) e le scelte che avevano permesso al dittatore di ingraziarsi la piccola borghesia cilena diventano l’origine della sua sconfitta.
(da Il Mereghetti, cit.)
sceneggiatura: Alfredo Castro, Mateo Iribarren, Pablo Larraín; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Andrea Chignoli; interpreti: Alfredo Castro, Amparo Noguera, Paula Lattus, Héctor Morales, Elsa Poblete…; produzione: Juan de Dios Larraín, Cao Quintas per Fabula Productions / Fabula (Cile) / Latina Estudio Prodigital / Latina Estudio (Brasile).
v.o. spagnolo, st. francese, 97’ – Cile/Brasile 2008
Santiago del Cile, 1978: Raúl Peralta Paredes O. sogna di vincere un concorso televisivo per imitatori di Tony Manero, il personaggio interpretato da John Travolta in La febbre del sabato sera: non ha nessuna esitazione ad ammazzare chi gli capita a tiro per comprare le piastrelle con cui ristrutturare il palcoscenico su cui si esibisce con altri mentecatti, ma andrà incontro alla più amara delle delusioni…
Il regista mette in parallelo la dittatura di Pinochet con la follia e lo squallore dei suoi personaggi. Tutti sono vittime di un “sogno americano” in formato esportazione: privi di morale e ideali, subiscono apatici la repressione, e a volte ne approfittano (Raúl deruba un militante massacrato dalla polizia). Il quadro che emerge è lucido e agghiacciante, e non privo di un disturbante umorismo nero, anche se a volte è ridondante nella rappresentazione della bassezza (…) Vincitore del Torino Film Festival.
(da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2017, Milano, Baldini&Castoldi, 2016)
sceneggiatura: Eliseo Altunaga, Mateo Iribarren, Pablo Larraín; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Andrea Chignoli; musica: Juan Cristóbal Meza; interpreti: Alfredo Castro, Antonia Zegers, Marcelo Alonso, Amparo Noguera, Jaime Vadell, Marcial Tagle…; produzione: Juan de Dios Larraín / Consejo Nacional de la Cultura y las Artes (Cile) / Canana Films (Messico) / Autentika Films / Latina Estudio (Brasile) / World Cinema Fund (Germania) / The Hubert Bals Fund of the Rotterdam Festival (Olanda) / Ibermedia (Spagna).
v.o. spagnolo, st. italiano, 98’ – Cile/Messico/Brasile/Germania/Olanda/Spagna 2010
Santiago, 1973. Impiegato all’obitorio, dove mette in bella copia i referti delle autopsie, Mario si interessa solo a Nancy, una ballerina un po’ sfiorita che vive di fronte a casa: quando l’obitorio comincia a strabordare dei corpi uccisi nel golpe non si fa domande, così come non se ne fa quando è chiamato a redigere il verbale di un “suicida” eccellente, anzi spera che gli arresti voluti da Pinochet, tra cui il padre di Nancy, favoriscano il suo legame con la donna, che si è nascosta nello scantinato di casa…
Asciugando i dialoghi e distillando le immagini, il regista torna a raccontare i comportamenti dei suoi connazionali ai tempi della dittatura. Qui affronta di petto il tema delle scelte personali di fronte ai grandi fatti della Storia, interrogandosi sui limiti della responsabilità individuale: la scarsa cultura e l’aridità sentimentale che il protagonista dimostra a più riprese (…) non sono una giustificazione per chiudere gli occhi davanti alla realtà. La scelta di regia che privilegia l’oggettività dei piani fissi e riduce al minimo i movimenti non raffredda l’emozione dello spettatore ma al contrario ne accentua il coinvolgimento, morale prima ancora che emotivo (…) Applaudito a Venezia dove è rimasto scandalosamente senza premi.
(da Il Mereghetti, cit.)
sceneggiatura: Pablo Larraín, Mateo Iribarren; fotografia: Miguel Ioann Littin Menz; montaggio: Juan Carlos Macías; musica: Juan Cristóbal Meza; interpreti: Benjamin Vicuña, Gastón Pauls, Francisca Imboden, María Izquierdo, Willy Semier, Hector Noguera, Alfredo Castro…; produzione: Juan de Dios Larraín, Hernán Larraín per Fabula, Santiago del Cile.
v.o. spagnolo, st. inglese, 110’– Cile 2006
Eliseo Montalbán è un musicista intrappolato in una composizione incompiuta. Da piccolo ha assistito alla morte della sorella, uccisa sopra un pianoforte, e ha composto una melodia su questo tragico evento. Anni dopo, Ricardo Coppa, un musicista mediocre e senza talento, intraprende un viaggio alla ricerca di Montalbán e della sua dimenticata creazione musicale, con l’obiettivo di trasformare quella musica in una composizione propria.
Il primo film, quasi sconosciuto, di quel grandissimo regista che è Larraín. E tutto fuorché un’opera prima sembra questo Fuga, opera dura, ossessiva, sofferta, sulla storia di un musicista e del suo componimento maledetto, un componimento nato da un terribile fatto di sangue nel suo passato. Musica che è vita e morte, riparo e dannazione. Sì, Larraín era già grande.
(Caden Cotard, in ilbuioinsala.blogspot.com, 18.3.’17)
sceneggiatura: Guillermo Calderón, Pablo Larraín, Daniel Villalobos; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Sebastián Sepúlveda; musica: Carlos Cabezas; interpreti: Roberto Farias, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking…; produzione: Juan de Dios Larraín, Pablo Larraín per Fabula (Cile).
v.o. spagnolo, st. italiano/inglese, 98’ – Cile 2015
Chiusi in una casa isolata in una piccola città sul mare, vivono una suora e quattro preti sconsacrati. Perché ciascuno a suo modo ha profanato la sacralità della vita. La vita degli altri, dei bambini che hanno abusato, di quelli che hanno venduto, degli uomini e delle donne che hanno tradito e di Sandokan, un infelice senza tetto e senza amore che accompagna gli spostamenti di padre Lazcano, prete pedofilo appena arrivato a destinazione. Lazcano ha violato Sandokan da bambino, che adesso come un tarlo lo consuma dentro e lo aspetta fuori dalla porta…
Preti pedofili, ladri di bambini, conniventi con l’esercito e le gerarchie cattoliche durante la dittatura confluiscono nel singolare “club” di Pablo Larraín, che ancora una volta mette in relazione la Storia del suo paese con personaggi che coltivano il “male” e il narcisismo delirante. Eludendo le trappole del cinema militante, attraverso la trasfigurazione estetica e una rara proprietà del mezzo, Larraín smaschera lo spirito ordinario, la morale misera e l’abiezione disinvolta di cinque presunti uomini di dio, prossimi ai fascisti della sua trilogia (Tony Manero, Post Mortem, No) (…) Larraín sbalordisce ancora col suo approccio libero e il suo cinema frontale, fatto di piani che isolano i protagonisti costringendoli a una relazione privilegiata con la propria pena. Perché un controcampo e un altro sguardo li lascerebbe esistere, passare all’atto. Senza scrupoli.
(Marzia Gandolfi, in www.mymovies.it)
sceneggiatura: Guillermo Calderón; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Hervé Schneid; musica: Federico Jusid; interpreti: Luis Gnecco, Gael-Garcia Bernal, Mercedes Morán, Alfredo Castro, Diego Muñoz, Michaerl Silva, Victor Montero, Francisco Reyes, Jaime Vadell, Pablo Derqui, Marcelo Alonso, Antonia Zegers…; produzione: Juan de Dios Larraín, Renan Artukmac, Christian Cardoner, Peter Dammer, Fernando Del Nido, Juan Pablo García, Axel Kuschevatzky, Ignacio Rey, Gastón Rothschild, Jeff Skoll, Mercedes Tarelli, Alex Zito per Fabula / Casting del Sur (Cile) / AZ Films/INCAA / Telefe (Argentina) / Centre National du Cinéma et de L’image Animée / Funny Balloons / Institut Français/Ministère des Affaires étrangères et du Développement (Francia) / Ad hoc studios / Elipsis Capital / Fondo Audiovisual Corfo / Instituto de Credito Oficial / ICAA / Movistar+ / RTVE/Setembro Cine (Spagna) / Participant Media (Usa).
v.o. spagnolo, st. francese/tedesco, 107’
Fine anni Quaranta. Sulle tracce del poeta comunista Pablo Neruda, amante della fama e delle prostitute, in fuga dal regime del presidente cileno Gabriel Gonzales Videla, c’è l’ispettore Oscar Peluchonneau, solitario e tenace: mentre la moglie del primo, la pittrice Delia del Carril, sta accanto al marito, fra i due antagonisti la distanza si accorcia sempre più…
Non una biografia di Neruda, ma un film “alla Neruda”, secondo le stesse parole del regista: la sceneggiatura di Guillermo Calderón descrive con grande partecipazione e senso dell’avventura l’ossessione dell’uomo di Stato per un “nemico” che a poco a poco assume i contorni del mito. L’inseguimento diventa così quasi metafisico, fino a sfociare in una notevole mezz’ora finale sulle nevi, da cinema western. Un film sull’inafferrabilità del reale e sull’inadeguatezza dell’uomo di fronte all’Arte, ma anche una delle opere migliori del cinema cileno che riesce a empatizzare con i propri personaggi e a trovare soluzioni stilistiche in grado di “liberarli” e non “imprigionarli”. Ma c’è anche una profonda riflessione sull’ambiguità di un comunismo che protegge l’artista celebre ma lascia indifesi umili e poveri. Belli anche i dialoghi, in particolare i duetti del protagonista con la consorte.
(da Il Mereghetti, cit.)
sceneggiatura: Noah Oppenheim; fotografia: Stéphane Fontaine; montaggio: Sebastián Sepúlveda; musica: Mica Levi; interpreti: Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt, Richard E. Grant, Caspar Phillipson, John Carroll Lynch, Beth Grant, Max Casella, Sara Verhagen…; produzione: Juan de Dios Larraín, Darren Aronoksky, Pascal Coucheteux, Scott Franklin, Ari Handel, Mickey Liddell per Fabula (Cile)/ Wild Bunch/ Why Not Productions (Francia)/Fox Searchlight Pictures/LD Entertainment/Protozoa Pictures/ Endemol Shine North America (Usa)/Bliss Media (Hong Kong).
v.o. inglese, st. francese, 100’ – Usa/Cile/Francia/Hong Kong 2016
Quando Jacqueline Bouvier Kennedy sale sull’Air Force One con il feretro del marito per tornare a Washington, il suo mondo – così come la sua fede – vanno in pezzi. Sotto choc e sconvolta dal dolore, nel corso della settimana successiva Jackie affronta i momenti più duri e impegnativi della sua vita: consolare i suoi due bambini Caroline e John John, lasciare la Casa Bianca, e soprattutto pianificare le esequie di suo marito…
Come già Neruda, questo non è un biopic, è un racconto impressionistico di alcuni momenti della vita del personaggio protagonista, il rendiconto dei drammatici tre giorni dopo l’assassinio visti dalla parte di lei, la bella vedova (…) Lo sguardo da entomologo del regista, l’oggettività dei piani fissi, la riduzione al minimo dei movimenti di macchina, la colonna sonora ovattata e minimalista creano un mondo a parte, parallelo a quello reale. La fusione tra immaginario e reale è aiutata dall’abilità nel ricostruire la grana e le imperfezioni delle immagini di allora, dando l’impressione che si tratti di documenti d’epoca e non di scene rifatte oggi: un’abilità già evidente in No, 2012.
(Alberto Morsiani, in “Cineforum”, 563, aprile 2017)